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Vincenzo Mascia

Nato a Santa Croce di Magliano (Campobasso) il 06.04.1957 ove vive e lavora.
È architetto, artista e designer.
Ha studiato architettura alla Sapienza di Roma. Allievo di Filiberto Menna, dopo una prima fase concettuale, nel 1996 per tramite di Anna Canali, direttrice della Galleria Arte Struktura di Milano, aderisce al MADI, movimento internazionale, fondato nel 1946 a Buenos Aires da Carmelo Arden Quin, riconducibile alla ricerca artistica non figurativa attraverso forme non espressive, non rappresentative e non simboliche.

 

ACHILLE PACE PER VINCENZO MASCIA

Mascia ha indubbio interesse per le tecniche “costruttiviste”, cioè per tutte quelle tecniche che hanno relazione e attinenza con le tecniche progettuali, razionali di una realtà sociale produttivistica.
Ma se la società progetta il consumo e la quantità, Mascia progetta la qualità e l’unicità, se il sistema vuole l’obsolescenza dell’oggetto, Mascia tende alla durata e al soggetto.
Osservando il suo impegno per una corretta misura delle proporzionalità formali, l’equilibrio delle parti del quadro, l’essenzialità e il rigore dei segni, ci si rende conto come tutto tende a una realtà formale che trova nell’idea strutturale dell’immagine spaziale, la giustificazione del suo rapporto con il mondo della produzione come valore.
Eliminando ogni aggettivo inutile e tutto ciò che è istintuale, pur rimanendo spontaneo, arriva a concepire il quadro come un modello che è insieme ordine formale, metrica proporzionale e unità delle parti in contrasto.
Insomma Mascia più che convincerci con il sentimento e le sensazioni, ci vuole persuadere attraverso il pensiero razionale. E questo non è da poco oggi che viviamo un momento problematico per la crisi che la “ragione” sta attraversando.
Adoperando una strumentazione molto difficile e pericolosa, proprio per la rarefazione dei contenuti soggettivi e passionali, rischia molto specialmente nei riguardi della comunicazione.
Ma se il rigore e il ritmo si mantengono a misura e tensione giuste e armoniche, potrà continuare con questa poetica fino in fondo, seguendo con sincerità la sua vena formativa. Si deve tener conto che Mascia ha fatto studi di architettura e dunque di “progettazione”.
Ma bisogna stare attenti a non confondere il segno del progetto architettonico con il segno del pittore, perché se il progetto architettonico rimanda a qualcosa che gli è fuori, che si realizzerà dopo, il “progetto” del pittore è reale in sé stesso, non rimanda al dopo, ma a ciò che è in quel momento, e dunque deve avere un valore fine e se stesso, completo, significante.
Proprio per questa ragione la poetica del “segno” sembra essere, per ora, ciò che più impegna il lavoro di Mascia.
Segni cercati volta per volta e articolati nei rapporti di incontro-scontro, di concavo-convesso, di positivo-negativo, dove un sottile rapporto di bianco su bianco, indica una vibrazione di luce, a volte contrastata da un forte colore primario che attira a sé il movimento direzionale della composizione.
La superficie neutra, o pausa del fondo, non intende avere un diretto rapporto con i segni che le sono sopra, ma più precisamente stabilire un intervallo allusivo di realtà esterna, continua, affinché il quadro non si chiuda in una cornice delimitante, ma si possa espandere allo spazio reale, esterno. Si noti il continuo appoggio dei segni ai margine del quadro da cui hanno inizio.
Manca nei suoi quadri un qualsiasi accenno a un centro, o convergenza tridimensionale prospettica, in cui i segni si relazionano tra di loro.
Rimane solo un colloquio di attrazione e repulsione dei singoli elementi autonomi. Lo spazio non vuole essere un infinito visivo, ma un infinito di forze in continuo equilibrio.
Mascia adopera una tecnica che richiede una regia esterna sui “patterns visivi”, e proprio per questa ragione, una fattura articolata, attenta e tesa dei segni è quanto mai importante, i quali segni, essendo unici e protagonisti, valgono per la loro nitidezza e dichiarata precisione.
Una ricerca elementare ma difficile, estremamente mentale, dove si gioca tutto con il rischio di perdere. Ma proprio per questo il suo lavoro merita incoraggiamento, affinché possa continuare e progredire nella direzione della qualità, della purezza dei segni e della civiltà del linguaggio.
Agosto 1984
Achille Pace

 

VINCENZO MASCIA | LUCE E COLORE OLTRE LA SUPERFICIE
di Cristina Costanzo

“Non mi sento pittore, designer piuttosto. I miei lavori li concepisco come prototipi di una produzione seriale. Un oggetto di design è tanto più vero quanto più esso entra nella nostra quotidianità senza stravolgerla. Nei miei lavori allo stesso modo ricerco la banalità. L’oggetto accompagna la nostra vita con la sua anonima, muta e rassicurante presenza”.

Vincenzo Mascia, 1995
Vincenzo Mascia, figura complessa di architetto, artista e designer, è un esponente significativo del Movimento Madi Internazionale.
Formatosi a Roma presso la facoltà di Architettura di Valle Giulia, dove entra in contatto con Filiberto Menna, teorico della pittura analitica, Mascia si rivolge ben presto all’arte non figurativa con particolare attenzione per gli esiti del Neoplasticismo olandese, delle Avanguardie russe, dell’Arte Concettuale e del Concretismo. Di grande importanza il confronto con i maestri del XX secolo come Lucio Fontana, ispiratore del ciclo di opere Sulle tracce di Fontana, strutture estroflesse realizzate mediante l’incisione di superfici di cartone con segni, misurati e razionali, che lasciano intravedere uno sfondo colorato per “trovare al di là della superficie ancora luce e colore”. Nelle riflessioni degli esordi si individuano gli orientamenti caratteristici della produzione di Mascia: lo sconfinamento tra diversi ambiti artistici e forme espressive e la proiezione dell’opera nello spazio da intendersi tanto come cultura dell’oggetto quanto come arte nell’ambiente. Non a caso, dunque, sin dagli anni universitari (1976-1982) Mascia subisce il fascino del design e si accosta allo studio di personalità come Gerrit Thomas Rietveld, Charles Rennie Mackintosh e Le Corbusier. Alla fine degli anni ’80 la passione per il design converge in ART DESIGN, società dedita alla produzione di oggetti e complementi di arredo disegnati dal nostro artista. Risale a questa esperienza la serie di lavori ispirata a Memphis, collettivo di design e architettura fondato da Ettore Sottsass. Si tratta di oggetti – orologi, panche, tavoli, vetrine, specchi e altro – contraddistinti dalla presenza di volumi astratti in primo piano che si articolano con le superfici geometriche dello sfondo. Tale attività contribuisce a definire l’aspirazione di Mascia a realizzare oggetti dotati di un’identità propria, sganciata dall’interpretazione mimetica della realtà.
Nel 1996 la frequentazione dell’ambiente culturale milanese e in particolare i rapporti con la Galleria Arte Struktura, diretta da Anna Canali, favoriscono l’adesione di Mascia al MADI, movimento internazionale, fondato nel 1946 a Buenos Aires da Carmelo Arden Quin, riconducibile alla ricerca artistica non figurativa attraverso forme non espressive, non rappresentative e non simboliche. Mascia perviene così a una produzione libera dai vincoli dell’interpretazione mimetica della realtà, caratterizzata da oggetti estroflessi, articolati con incastri e geometrie insolite. Sulle orme di Carmelo Arden Quin la ricerca di Mascia, in un efficace equilibrio tra la libertà e il gioco, contribuisce all’emancipazione dell’opera dalla cornice. Si rivela particolarmente rappresentativo della ricerca di Mascia Struttura caotica, l’intervento ideato per I-Design, manifestazione internazionale su progetto di Daniela Brignone giunta nel 2015 alla sua quarta edizione. Elementi primari dell’opera sono i tubolari colorati in allumino disposti in maniera casuale, secondo accostamenti e sovrapposizioni, e collocati presso piazza Politeama a Palermo. L’opera include la presenza di una superficie specchiante, capace di dialogare con il contesto ambientale circostante e di svelare le inedite possibilità di interazione tra arte, design e architettura. Mascia, sottolinea Serena Mormino, è “artista di forme e scomposizioni geometriche ben definite anche quando scomposte” ed è “designer, perché l’arte ludica e giocosa tipicamente Madì, può avere una funzione anche nel quotidiano”. Mascia attua un superamento della pittura intesa in senso tradizionale e opera una sintesi della disciplina artistica con l’architettura e il design al fine di raggiungere, come da lui dichiarato, “l’armonia delle parti in contrasto: ordine e disordine, pieni e vuoti, lucido ed opaco, concavo e convesso”. Il successo di Mascia, suggellato dall’attenzione della critica e del pubblico riscontrata nel corso delle numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero, risiede proprio nel connubio di pensiero e fenomeno e nella capacità di travalicare il confine tra l’idea e l’azione, il concetto e il quotidiano, in sintonia con le sue opere fatte di luce e colore oltre la superficie.

 

INTERVISTA A VINCENZO MASCIA
di Valentina Lucia Barbagallo

Chi è Vincenzo Mascia? Ci parli, se le va, non solo di lei come artista, designer ma anche di lei come uomo.
Ritengo che le interviste siano il mezzo migliore per conoscere le personalità degli uomini in generale e degli artisti in particolare. Io che sono portato alla sintesi, nel senso che mi piace arrivare in fretta e possibilmente con il minimo sforzo alla comprensione delle cose, trovo più informazioni in una intervista che in un intero trattato. Chi sono? Me lo chiedo spesso e mi chiedo spesso anche il senso di quello che faccio, e quasi sempre non trovo risposte. Sono un uomo profondamente ed orgogliosamente del sud, amo la luce mediterranea, il mare, sono molisano di Santa Croce di Magliano, di estrazione proletaria si sarebbe detto una volta. Scuole superiori professionali, istituto tecnico per geometri, ovvio, mio padre era carpentiere edile, con una sopita vocazione per il bello e per l’arte. Amante della musica pop, Lucio Battisti per gli autori italiani, Beatles per la musica straniera, apparentemente così distanti, ma così vicini nell’evoluzione di nuove sonorità, con visioni di sintesi, di riduzione al minimo degli accordi, degli strumenti, delle armonizzazioni. La curiosità e la voglia di crescere, culturalmente ed anche socialmente, mi ha portato ad iscrivermi alla facoltà di architettura di Valle Giulia, la mitica, della rivoluzione sessantottina, nella Roma dei cupi anni di piombo, ma anche della gioia del movimento studentesco , della creatività al potere, degli indiani metropolitani. Nel mio soggiorno romano sotto l’aspetto artistico due cose mi hanno profondamente colpito: la frequentazione del corso di istituzioni di storia dell’arte con Filiberto Menna, teorico della corrente analitica, ed una mostra che vidi in una galleria privata di Piazza Fontanella Borghese di Piero Manzoni. Mi chiesi ma Piero Manzoni è un genio o è qui con le sue opere a prendere in giro il prossimo. Stavolta non c’erano scorciatoie o semplificazioni, per capire Manzoni occorreva studiare il concettuale post duchampiano e la pittura analitica. Manzoni rifletteva sull’arte come linguaggio autonomo e, provocatoriamente, come i Sex Pistols in musica, dimostrava che si poteva fare grande arte o grande musica anche senza conoscere a fondo le tecniche, che conta di più il contenuto del contenitore, il significato del significante.
Capii che con quattro accordi si può scrivere grande musica e decisi che avrei provato a fare l’artista.
Architettura e arte visiva: quanto e come queste due discipline o meglio filtrano/guidano il suo sguardo e la sua visione delle cose?
Io appartengo al grande Movimento Madì internazionale, diretta conseguenza del costruttivismo a cui è intimamente connesso. L’arte costruita, muovendo dall’azzeramento linguistico e formale (nessuna forma esiste a priori: si fa forma con l’arte del costruire, mettere insieme, comporre), rompe con la tradizione storicista e realizza la continuità tra arte e tecnologia. Questa intima connessione con altre discipline (architettura, grafica, disegno industriale), fa si che essa sia un’arte ancora testardamente vitale. Per cui in fondo la mia visione del mondo e delle cose è collegata ai mie studi in arte e architettura, non c’è alcuna discontinuità tra arte, architettura e design.
Lei si ritiene più un artista o un designer?
Personalmente non ho mai avuto interesse per la pittura intesa in senso tradizionale, non sono di quelli che già a cinque anni riempivano quaderni di disegni. Sono immensamente innamorato dell’arte, ma soprattutto dell’architettura e del design, ho sempre cercato una sintesi tra queste discipline, perché in fondo la metodologia, l’approccio è identico.
Pieno – vuoto; orizzontale – verticale; lucido – opaco: sono coppie ossimoriche che ritornano sempre nei suoi lavori e che sembrano quasi essere le forze generatrici della sua stessa ricerca. In che modo?
La vita stessa, l’universo è l’insieme di forze contrastanti: materia e antimateria, ordine e disordine, maschile e femminile, buio e luce, vita e morte, bene e male, Yin e Yang. Anche l’architettura persegue l’equilibrio dei contrasti, Munari dedica un’intera fase della sua ricerca al positivo – negativo.
L’uomo vive sempre in questo perenne contrasto, in questa dialettica degli opposti, tra l’impulso irrazionale e l’ordine razionale.
I miei lavori, nel loro disordine apparente, hanno nella ricerca dell’armonia il loro fine ultimo.
In che rapporto stanno la sua adesione al movimento Madì e la sua ricerca personale?
Come artista faccio parte di un movimento artistico che da decenni persegue un’arte che non rappresenti, non significhi, e non faccia riferimento a simboli. L’arte è qui e adesso con la sua autonomia linguistica con il suo codice ed il suo insieme di segni. L’oggetto artistico non rimanda ad altro da sé ma è autosignificante, ossia significante e significato sono perfettamente coincidenti. Carmelo Arden Quin fondatore con Rhod Rothfuss e Gyula Kosice del Madì, libera il quadro dalla giogo della cornice e dalla tirannia delle forme elementari, pur restando profondamente legato alla pittura.
Sono approdato al Madì nel 1996 in maniera inconsapevole. Lavorando a lungo sul ciclo di opere titolato “sulle tracce di Fontana”, superfici di cartone inciso ed estroflesso che rivelavano un fondo di colore e luce, ad un certo punto intuii che bisognava travalicare i limiti del contorno del quadro che mi appariva, ormai, come un universo a sé, concluso, che non ammetteva dialogo, contaminazioni.
Volevo che il quadro esplodesse in mille frammenti, che superasse i propri limiti e provasse a conquistare lo spazio al di fuori di sé. Così ho cominciato a lavorare sulla scomposizione del quadrato in altre forme geometriche elementari che assemblavo per accostamento o sovrapposizione.
Nel 2015 ho realizzato delle installazioni al Museo del Parco di Portofino, a Venezia per Open 18, a Palermo in Piazza Politeama a Palermo, utilizzando come elemento primario un tubolare quadrato in allumino, ne ho utilizzato nove, disposti a terra in maniera casuale in accostamento ed in sovrapposizione (le possibili combinazioni sono infinite) in una sorta di maxi mikado, in continuità con il pensiero madì di un’arte ludica e giocosa.
I listelli sono colorati nella parte terminale, per renderli unici e soggettivizzarli.
I listelli appoggiano su una lamina di acciaio specchiante, in modo che essa rifletta parte dei listelli ed il cielo, la natura, il paesaggio circostante. Il cambiamento delle condizioni di luce e delle condizioni atmosferiche introduce una quarta dimensione dell’opera, quella temporale, stabilendo il limite tra natura ed artificio, tra natura e cultura.
Che consiglio darebbe a quanti oggi vorrebbero intraprendere la sua professione?
Non mi sento di indicare vie o di dispensare consigli, ognuno deve vivere la propria vita e coltivare i propri sogni. Io sarò l’ultimo degli artisti ma vedo in giro troppa approssimazione, troppa gente che si sente l’artista incompreso che prima o poi sarà riconosciuto come il nuovo Van Gogh. E purtroppo attorno a questa galassia di presunti artisti girano altrettanto presunti esperti, critici o galleristi che ti fanno vedere la luna nel pozzo, basta pagare il biglietto e ti procurano un chiodo dove puoi appendere la tua arte e aspettare che arrivi il gallerista illuminato che ti darà soldi e fama. Spesso rifletto: ma chi lo fa fare a stare chiuso nel mio laboratorio, al caldo o al freddo a seconda della stagione, per anni e anni di ricerca continua, di autofinanziamento, di frustrazioni, di amarezze, di rinunce, non sarebbe meglio fare una bella passeggiata, andare al mare, giocare a carte con gli amici, ma tant’è è il fuoco dell’arte che ci avvolge e distrugge.

 

GIORGIO AGNISOLA PER MASCIA

Vincenzo Mascia, l’ulteriore equilibrio
L’arte di Vincenzo Mascia non è semplicemente costruttiva, non si esaurisce in una lettura razionalistica della realtà, filtrata dal personale sentire estetico. Indubbiamente l’artista insegue un’idea di struttura, caratterizzata da una logica applicata in particolare alla relazione tra le parti, pone frequentemente a base dei suoi progetti la percezione visiva. E tuttavia in numerose sue opere c’è qualcosa di più e di diverso. L’ordine, la misura paiono l’esito di una sorta di viva apprensione psicologica e mentale, connessa con un avvertimento più interno del fare artistico. Grazie al quale Mascia resta vigile, intuizione dopo intuizione, per cogliere quel limite della forma liberata da ogni provvisorietà, definitivamente restituita ad una sorta di superiore armonia.
Che l’arte di Mascia non sia una pura costruzione meccanicistica lo si coglie analizzando i modi e le tecniche del suo lavoro. All’equilibrio infatti l’artista perviene talvolta rompendo il ritmo puramente consequenziale dei segni e degli elementi formali a cui fa ricorso, inserendo nell’immagine un elemento di discontinuità. Altre volte compone un assetto statico ma prefigura quello dinamico, come in molte opere della presente mostra, caratterizzate da una sorta di onda dello sguardo, che asseconda quella spirituale dell’osservatore. Altre volte l’intento dell’artista è cogliere il punto di sintesi tra equilibrio e squilibrio delle forme, pervenendo ad un assetto visivo di forte connotato spirituale. Altre volte infine Mascia gioca con i cromatismi, che evoca alla stregua della luce, finemente, in relazione alla loro lunghezza d’onda. E’ da questo variare di procedimenti che si coglie innanzitutto l’attesa, la vigilanza, la ricorrenza anche ma altresì l’improvvisazione di un fare misurato, ma anche teso e intuitivo.
Proteso verso un sentire ulteriore della vita.
Giorgio Agnisola 2016

Esposizioni

Le sue opere sono presenti in collezioni private e istituzioni museali quali:
Museo MADI di Dallas (U.S.A.)
Museo de Arte Contemporáneo Latinoamericano de La Plata (Argentina)
Museo MADI di Sobral (Brasile)
Pinacoteca di Casacalenda
SACROCAM di Santa Croce di Magliano
Young Museum di Revere
Museo Civico di San Martino di Lupari
Museo MAGI ‘900 di Pieve di Cento
Museo MAGA di Gallarate
Museo Civico di Parete, il Museo Civico di Vibo Valenzia
Museo Civico di Praia a Mare
Museo MADI della Candelaria (Argentina)
Museo del Parco di Portofino
Museo outdoor di Sorrento